LA CITTÃ? PLANTAGENETA
Ad alcuni di voi Le Mans farà venire in mente la famosa corsa delle 24 ore, a me- che non amo i motori- prima di andarci evocava il gran numero di film che vi sono stati girati. Come mai questa città è così spesso sede di set (alcuni cartelli avvisavano che pochi giorni dopo il nostro soggiorno la piazza della cattedrale sarebbe stata di nuovo occupata da una troupe)? Semplice, perché è dotata di un centro storico medioevale ottimamente conservato, ideale cornice per film ambientati dal XIV al XIX secolo, cioè il Vieux Mans detto anche “città plantageneta”, una collina lunga e stretta circondata da mura di origine romana, percorsa da strade anguste contornate di case à pan de bois (graticci) e pavimentate da grossi lastroni di pietra (nonostante ciò il film cui per primo penso associato a Mans è Le beau mariage di Rohmer, ambientato negli stessi anni in cui è stato girato).
I Plantageneti erano appunto i membri della nobile famiglia di conti che regnava sull'Anjou (o Angiò) e che, grazie a un'abilissima politica matrimoniale più che per conquiste militari, si ritrovarono nel momento del loro massimo splendore a regnare su un “impero” che comprendeva oltre alla contea originaria il ducato di Aquitania, quello di Normandia e… il regno d'Inghilterra. Già , per chi non lo ricordasse era plantageneta un tizio di nome Riccardo I Cuor di Leone che aveva ereditato da suo padre Enrico II e da sua madre Eleonora d'Aquitania tutte queste terre; vero è che suo fratello Giovanni Senza Terra dovette cedere a Filippo Augusto tutti i territori su suolo francese a nord della Loira (più tardi Luigi IX diede in feudo l'Anjou a un proprio fratello dando origine a quella casata di Angiò che tanto scorrazzò nella nostra penisola meritandosi l'odio ferocissimo del nostro grande poeta, esiliato politico dalla guelferia nera che agli angioini si appoggiava), ma i Plantageneti vi fecero ritorno da conquistatori durante la Guerra dei Cento Anni con Enrico V, per poi perdere definitivamente ogni feudo sul continente a seguito della vittoria definitiva dei Capetingi - Valois di Francia, grazie alle imprese della Pulzella che riuscì a far consacrare Carlo VII a Reims- sul piano della ideologico e della propaganda, grazie ai grandi progressi dell'artiglieria francese- sul piano tecnico-militare. I Plantageneti dovranno allora “accontentarsi” dell'Inghilterra fino a Riccardo III, che probabilmente non era così abietto come Shakespeare ce lo dipinge, ma in ogni caso fu ultimo re plantageneta venendo sconfitto a Bosworth dal futuro Enrico VII Tudor.
Ai Plantageneti risale il fatto che il motto della casa reale d'Inghilterra sia in francese (Dieu et mon droit); quanto al nome stesso della casata deriva dal soprannome attribuito al conte Goffredo V il Bello, padre di Enrico II d'Inghilterra, che assunse come stemma araldico la ginestra (planta genet), fiore che in effetti è molto comune trovare in Anjou.
Legate all'Anjou e alla sua casata restano la proverbiale “douceur angevine”, fatta di clima mite e civiltà cortese che resero questi luoghi delle oasi di piacevolezza nel corso dei secoli, e lo stile architettonico gotico-angioio, o gotico occidentale, differente dal gotico dell'Ile-de-France, caratterizzato da una volta più bombata, esempi di gotico angioino si possono ammirare anche in Italia, specialmente al sud; ovviamente la bella cattedrale Saint Julien Vieux Mans è in questo stile. Per arrivare alla cattedrale si può percorrere la rue de la Reine Bérengère, vedova di Riccardo I, venuta qui a Mans a trascorrere i suoi ultimi anni; questa via è in realtà una parte della vecchia Grande Rue, che riprende il suo nome nella parte meridionale della cittadella: è proprio nel cuore della Grande Rue, sviluppato tutto in verticale in un antico edificio, che si trova l'Auberge des 7 plats.
UNA TRAPPOLA PER TURISTI?
La domanda è più che lecita, e molti (soprattutto tra gli internauti), lo sostengono: in effetti la situazione nel centro della città plantageneta, circondato da negozi di antiquariato e gallerie d'arte, le numerose insegne che indicano come trovarlo, l'indicazione su tutte le guide turistiche, e la perenne fila di persone che vogliono entrare può farlo sospettare. Di fatto è il ristorante in cui è più probabile che chiunque vada a visitare Mans finisca per andare a mangiare, ma, almeno a mio giudizio, in questo caso la soluzione più ovvia si rivela ottima.
Il nome del ristorante è dovuto alla sua formula più collaudata, disponibile sia a pranzo che a cena: per 19,90 euro (potenza delle soglie psicologiche…) si può scegliere una entrée, una pietanza e un dessert tra una lista di sette per ognuno ( i dolci in effetti sono 14, leggo che a un certo punto hanno portato a 14 anche le precedenti portate, che ora sono tornate a sette). Una critica che si può avanzare è che la cucina non è ancorata al territorio (difficile in realtà trovare la vera cucina della Sarthe, il dipartimento di Mans, probabilmente non molto caratterizzata), ma tende piuttosto verso le specialità del Perigord senza però attenervisi: insomma una cucina genericamente francese con un leggero accento del sud ovest; vero, è un po' come trovare in Toscana una lista prevalentemente napoletana che prevede però anche ossobuco e bollito alla piemontese… però il raffronto non regge perché la cucina italiana è molto più caratterizzata regionalmente di quella francese, che in particolare avvicinandosi a Parigi (distante un'ora di TGV) perde specificità per accogliere influssi da tutto l'Esagono.
Se mai il problema più serio è, soprattutto di sera, quello di trovare posto: se infatti non avrete prenotato in largo anticipo non si troverà un tavolo libero; ma per due o massimo quattro persone il problema è presto risolto, come spiegano i camerieri, basta presentarsi alle 19 o dopo le 21 e il primo tavolo libero sarà vostro, noi che abbiamo scelto la seconda opzione non abbiamo aspettato praticamente nulla, per ritrovarci a un tavolo della saletta all'ultimo piano. Proprio qui sta un punto su cui i detrattori spesso insistono: alcune sale, in particolare quella al sottosuolo, sarebbero troppo rumorose… su questo non posso pronunciarmi, magari è vero, noi però siamo stati in una sala moto tranquilla con solo quattro tavoli per due, anche discretamente distanti, con vista sui tetti d'ardesia della città , e dove siamo rimasti in tutta tranquillità (malgrado a un certo punto l'arrivo non gradito di una coppia italiana con bambina piccola… del tipo in cui nessuno dei due sa parlare francese e allora provano con una sorta d'inglese, sul quale è meglio stendere un pietoso velo). Quadri guardabili alle pareti rosso scuro, pavimento in legno, piacevoli sedie di vimini, tavoli quadrati piccoli ma sufficientemente comodi attraversati da una striscia di tovaglia, posate cambiate a ogni portata, bicchieri discreti; anche il servizio, che ci si potrebbe aspettare pessimo in un locale così frequentato, è in realtà gentile e sorprendentemente rapido; è diventato in effetti più lento tra la pietanza e il dessert, ma una pausa in quel momento è stata gradita.
SCEGLIENDO TRA I SETTE PIATTI
Appena seduti ci è stato portato al tavolo un barattolino di dimensioni discrete pieno di formaggio fresco all'aglio e alle erbe, con del pane insperabilmente buono; rinfrancati da questo amouse bouche rustico ma saporito, decidiamo il nostro percorso attraverso la carta, arrivando a questo risultato: terrina perigordina con foie gras e paté accompagnata da cetriolini per akiko, e una tartare di capesante con gamberetti e una mousse di verdura o frutta che non ricordo (sono passate due settimane ormai) per me. Temevo di aver osato troppo nel prendere le capesante crude in un posto così lontano dal mare e dal prezzo contenuto, invece erano decisamente fresche e molto buone; piacevolmente classica la terrina di akiko (certo, in un altro tipo di posto magari la proporzione tra fegato grasso e paté sarebbe stata maggiormente a favore dell'ingrediente più nobile, ma a un altro prezzo), dosi in entrambi i casi parecchio generose. Come pietanza abbiamo preso entrambi del pavé di manzo (la specialità del posto) Akiko al pepe, io alla Rossini, cioè con foie gras e salsa tartufata (in questo caso legata con del Porto): la carne è tagliata a fettine sottili, io l'avevo chiesta al sangue ma non troppo e la cottura rispondeva alle mie aspettative; oltre alla carne e alla salsa ogni piatto conteneva un pomodoro alla griglia, un piccolo gratin di patate e una vaschetta di ottimo purée ai funghi, di cui ci è stata portata anche una terza vaschetta. Un bel rondellone spesso di fegato grasso era appoggiato sulla mia carne: anche qui, se volessi trovare a ogni costo di che criticare potrei dire che se me lo fossi trovato in un piatto nudo, magari con solo un po' di sale grosso e un toast, l'avrei trovato non veramente eccellente, ma qui era un ingrediente di un piatto più composito, e insaporiva meravigliosamente l'insieme; buono, ma meno interessante, il manzo al pepe, anche perché ben cotto (peraltro come da richiesta). Il tutto era veramente abbondante e saportissimo, e ci ha dato quella grata sensazione che dà mangiare tanto e bene sapendo che si sta spendendo poco per quello che si è avuto, che la vacanza è agli inizi (era la nostra seconda sera), che la cena non è di quelle impegnative, ma è buona oltre l'aspettativa. Dopo una pausa gradita sono arrivati i dolci: un babà al rum con gelato per me (qualcuno più esperto di me- magari falcon?- dovrebbe un giorno raccontare la storia di questo dolce che unisce la Francia, Napoli e la Polonia, con il contributo delle Antille senza le quali non avremmo il rum), tanto ricco che ho avanzato la panna di guarnizione, e una zuppetta di fragole con sorbetto e spumante rosé della Loira per akiko, entrambi dignitosi.
VINO, CONTO E CONSIDERAZIONI FINALI
Non abbiamo voluto prendere una costosa bottiglia, e quindi ci siamo accontentati di un “pot” (mezzo litro, in effetti il pot lionese “ufficiale” credo sia di 46 cl.) di vino sfuso, che era comunque un piacevole Anjou rosso AOC, rinforzato da un bicchiere di Coteaux du Layon, vino dolce della Loira che molti considerano la più valida alternativa al Sauternes, per accompagnare la terrina al fegato grasso. La nostra guida (quella del Routard) ci dava diritto a un digestivo offerto, avendolo richiesto ci hanno portato del Calvados senza etichetta in bottiglia di ceramica, lasciandocelo al tavolo: ancora giovane e non troppo complesso, il distillato era comunque un valido supporto per la conclusione del pasto.
Due menu a 19.90, vino sfuso per 8 euro più un bicchiere a 2.50, niente coperto e acqua del rubinetto per un totale di 50 euro e 30 centesimi, veramente molto poco per la qualità e la quantità di cibo mangiato: quindi la mia considerazione finale, sulla base della mia unica- magari fortunata- esperienza, è che si tratta di un ottimo indirizzo, del tipo che si vorrebbe trovare in ogni luogo che si visita. Chi lamenta la banalità della cucina sembra non tenere conto del prezzo, inoltre quello che vorrei sottolineare è che si tratta di una cucina generosa e franca davvero apprezzabile da chiunque (vegetariani esclusi, per la verità ), ben preparata e curata anche se certo non particolarmente inventiva. Non il ristorante da sognare per mesi, neppure l'ideale per una serata particolarmente intima e d'atmosfera, ma un ottimo posto per sfamare con gusto anche l'appetito più robusto, e come tale consigliatissimo.
Consigliatissimo!!
[corpicino]
02/09/2008