PROEMIO E INVOCAZIONE ALLE MUSE
Signore, signori, cari commensali di GustaModena e voi tutti buongustai della rete, salve; mi accingo a narrarvi di un luogo del gusto che, da un piccolo borgo, irradia il suo sapere (occorre ricordare che sapere etimologicamente deriva da sapio, “aver sapore”?) su tutto il nord-ovest della Francia, l'Europa, il mondo. Infatti con questo ristorante siamo, come suol dirsi, sul tetto del mondo: tre stelle Michelin (la terza conquistata molto recentemente, nel 2006), 19/20 Gault Millau, non si può varcare una simile soglia senza una certa emozione e anche un certo timore, direi anche con reverenza: si sta per provare la cucina di uno dei rari veri artisti dei fornelli; ecco perché una certa serenità e la dovuta concentrazione sono richieste nell'affrontare una simile cena, nonché nello scrivere per restituire di un'esperienza simile… e anche, mi verrebbe da dire, nel leggerne il resoconto. Ma sto probabilmente esigendo troppo, consideratela una variante della classica “captatio benevolentiae” e prestatemi dunque la vostra attenzione più partecipe e indulgente: il compito cui mi appresto non è facile, si tratta di riferire del più splendido ristorante e della più incantevole cena da che ho cominciato queste mie recensioni; Brillat-Savarin inventò la musa Gastarea per presiedere alla gastronomia, questo è il mio momento per invocarla, assieme alle sue nove sorelle, affinché soccorra al mio sforzo.
I DOLORI DEL GIOVANE (?) BUONGUSTAIO
Ahimè non ero io quel giorno nelle migliori condizioni per accostare un simile tempio del gusto, infatti da alcuni giorni soffrivo di un forte mal di gola… probabilmente, data l'estrema localizzazione e l'intensità del dolore, si trattava di un'afta a una tonsilla, fatto sta che l'inghiottire e il contatto con certi liquidi (caldi o alcolici) mi causavano fitte di sofferenza. Davvero seccante, nei giorni in cui massimamente dovevo concedermi ai piaceri della gola, questa attività mi procurava dolore. Per capire l'entità della mia pena basterà una breve riflessione: il vizio di cui tutti noi dovremmo in qualche misura confessarci affetti viene chiamato “gola”, e non per esempio ventre, perché secondo la fisiologia antica e medioevale il goloso trae il suo (turpe…) piacere dall'inghiottire; infatti si possono recuperare illustrazioni allegoriche del vizio della gola rappresentate da persone col collo abnormemente lungo. Ecco quindi il mio rimpianto: inutile dire che in quei giorni lanciavo continui alti lamenti rendendomi veramente insopportabile.
CANCALE TERRA DI OSTRICHE E CORSARI
Cancale è una città (noi diremmo al massimo cittadina, ma il titolo di “ville” le fu conferito ufficialmente nel 1545) portuale del dipartimento dell'Ille-et-Vilaine, situata nella Côte d'Ã?meraude a pochi chilometri da Saint-Malo, il suo promontorio chiude la baia nella quale sorge Mont Saint-Michel che nelle giornate limpide è visibile dal porto di Cancale- famosa da tempo immemorabile per le sue ostriche: selvagge un tempo, ora sono attivamente allevate in tutta la baia, durante la bassa marea, che è qui molto pronunciata come nel resto della costa settentrionale francese, per tutta la spiaggia si possono vedere le gabbie dove il prezioso bivalve cresce attendendo la sua fine condita da qualche goccia di limone. Quella di Cancale è un'ostrica piatta, grande fino alla misura di un “piede di cavallo”, ed è reputata tra le migliori del mondo, se non LA migliore in assoluto: è proprio grazie alle sue ostriche che Cancale ottenne da Francesco I il suo titolo e statuto di città .
Il borgo è nettamente diviso in due: in alto sulla scogliera il nucleo più antico e le case storiche degli armatori, eleganti e austere, in basso la mezzaluna del porto con le case dei pescatori, oggi tutto un brulicare di hotel e ristoranti, dove trionfano i plateaux de fruits de mer, con l'ostrica ovviamente a fare da regina.
Molte informazioni si potrebbero aggiungere sulle ostriche e i loro pescatori-allevatori, ma è caso di interessarci ad altri storici abitanti di Cancale: i corsari.
Cancale è stata un porto di corsari per molti secoli: occorrerebbe fare qui una distinzione, i corsari sono coloro che praticano la “guerra di corsa”, cioè depredano le navi delle potenze con cui la loro nazione è in guerra, con tanto di patente reale che li autorizza, sono cioè dei combattenti particolari ma fedeli alla causa, dei patrioti ben distinti (a loro dire) dai volgari pirati che non servono nessuna bandiera. I corsari più famosi ottennero cariche e riconoscimenti in patria- Francis Drake, per dirne uno, è un eroe nazionale inglese- mentre i pirati dovevano “accontentarsi” di ciò che il denaro poteva acquistare loro; in effetti però la distinzione è molto più vaga, agli occhi del nemico pirati e corsari erano la stessa feccia da appendere ai pennoni, e molti sono coloro che, nella storia, trascorsero più volte con disinvoltura dal servizio del loro re all'attività privata e personale di bucaniere.
Anche noi opereremo una semplificazione e metteremo tutti nel calderone (parola non scelta a caso) dei “fratelli della costa”, per poter dire che qualche cancalais ha contributo ad arricchire quello che Michel Le Bris definisce “il vero tesoro della filibusta”.
Infatti, nella sua introduzione al libro della figlia Melani "La cucina della filibusta" (Elèuthera editrice 2003), Le Bris sostiene che, oltre ad aver sperimentato ante litteram, tra l'altro, la fratellanza universale e la parità tra i sessi, i filibustieri sono i veri inventori della cucina caraibica e quindi di tutto ciò che, con un termine attuale, potremmo chiamare fusion. Infatti, i regolari coloni, spagnoli prima, inglesi, francesi e olandesi poi, del nuovo mondo si facevano un punto d'onore di mangiare quanto più possibile alla maniera europea, per distinguersi dai “selvaggi” locali; i pirati, invece, sempre alla macchia, strinsero amicizie di sopravvivenza sia con le popolazioni indigene sia con le comunità di schiavi fuggitivi, e arricchirono le loro conoscenze culinarie provenienti da tutta Europa con gli apporti amerindi e africani di questi ultimi, ovviamente utilizzando gli ingredienti che quelle ricche terre e quei mari caldi offrirono loro, insomma, nelle parole della presentazione all'edizione francese del libro: “ queste persone inventarono (non esiste altro termine) una cucina a misura precisa del mondo in cui vivevano, una cucina basata sull'uso di prodotti fino a quel momento completamente ignoti- ragion per cui questa cucina- è la prima che si possa definire autenticamente «internazionale»: in ciò è davvero la più moderna delle cucine dimenticate”.
Tutto ciò ci avvicina finalmente al vero argomento della recensione, l'ascendenza corsara di Cancale è quanto mai nobile e preziosa per il suo massimo ristorante; e ancora più stretta è la parentela, dal momento che (sempre dall'introduzione) “il loro [dei filibustieri] maggiore motivo di gloria (culinaria, s'intende), è quello di essere stati i più inventivi tra coloro che usavano le spezie nei cinque continenti”.
Ecco allora che possiamo presentare colui che è senza dubbio l'erede più degno di questa gloria.
OLIVIER ROELLINGER E LA CUISINE CORSAIRE
Moderno corsaro, Olivier Roellinger ha stabilito la sua base a Cancale, ma da qui, chiuso il suo ristorante per buona parte dell'inverno, parte ogni anno per viaggi intorno al modo alla ricerca delle migliori spezie e per ampliare la sua conoscenza delle cucine di tutto il mondo. Le sue avventure sono raccontate in alcuni libri e anche in un film documentario, ma ovviamente il miglior riassunto, e la vera summa delle sue esperienze si trovano nei suoi piatti.
In un mio commento a una recensione ho utilizzato una citazione- prontamente riconosciuta dal valente corpicino come proveniente dall'estroso chef Igles Corelli- secondo la quale un cuoco diventato bravo fa molta ricerca sulle erbe, quando diventa davvero bravo affronta le spezie; tenendo buona questa indicazione Roellinger è davvero molto, molto bravo: senza tema di esagerare si potrebbe affermare che nessun altro come lui ha fatto ricerca in tutto il mondo sulle spezie e sul loro impiego in cucina, semplicemente egli è il primo chef del mondo intero, per sapienza nell'uso delle spezie.
Molto appropriatamente, come abbiamo visto, il bravo Olivier ha deciso di chiamare la sua cuisine corsaire, cucina corsara. Il meglio dell'oceano si sposa nei suoi piatti con tutto ciò che di profumato, aromatico e piccante la terra produce, matrimoni eseguiti con l'ardimento del bucaniere e il rigore del ricercatore.
Disseminati per Cancale vi sono molti locali del corsaro Roellinger, dal negozio di spezie (ci si perde davanti alle varietà di pepe in vendita) all'albergo di lusso, dalla scuola di cucina alla sala da tè al ristorante cadetto, dedicato prevalentemente ai frutti di mare, ma noi andremo a stanare l'avventuriero direttamente nel suo quartier generale, il relais gourmand che l'ha proiettato ai vertici della ristorazione mondiale.
ELEGANZA SENZA OSTENTAZIONE
Il ristorante La Maison de Bricourt, nel cuore della parte alta della città , è classificato dalla Michelin con solo tre forchette-e-cucchiai, poco per un tre stelle, generalmente i locali che arrivano a questo vertice hanno quattro o cinque di quei simboli: ricordo che le forchette sono un indicatore del confort e del prezzo di un locale, e non della cucina, infatti superato il piccolo cortile ed entrati nel ristorante ci si ritrova in un ambiente d'indubbia eleganza ma privo di sfarzo; diviso in diverse salette, compresa una- a quanto ho scorto- con una grande vetrata, è dominato dai toni del bianco, con pareti in legno, scarse le decorazioni.
Noi eravamo seduti vicini a un grande caminetto in pietra, dietro una pila di veri ciocchi di legno era nascosta una lampada in vetro con una grande candela all'interno, in questo modo sembravano guizzare fiamme senza che l'aria già calda di fine agosto diventasse irrespirabile. Classico tavolo tondo, di quelli da quattro che nei locali di questo livello vengono apparecchiati per due, mi pare di ricordare che fossero un po' fastidiose le gambe, ho dovuto spostare leggermente il coperto, sedie (e non poltroncine, almeno al nostro tavolo) bianche in vienna, tovaglie bianche lunghe di prammatica; molto bello il sottopiatto, diviso in più scomparti riempitivi di vere, e fresche, spezie, piatti abbastanza classici in porcellana bianca (anche se ovviamente non mancavano per alcuni piatti quelli con bordi immensi e piccola semisfera centrale), cristalli Spiegelau, argenteria. Non ricordo la foggia dei fiori e della candela al tavolo, ma questi elementi non mancavano; molto particolare il “piattino del pane” che era qui una struttura di ardesia (la non lontana Angers ne è la capitale, nel ristorante gastronomico di quella città anche i sottopiatti erano un grosso blocco di quel materiale) canna di bambù e acciaio, burro salato e burro alle alghe vengono anche loro portati al tavolo su una piccola lastra di ardesia.
UN VIAGGIO MERAVIGLIOSO
Ordinare non è stato difficile: un rapido sguardo alla carta e la scelta è stata per il secondo, quello più esteso, dei due menu degustazione, dall'evocativo nome di Image du Pays Malouin (cioè la zona di Saint-Malo): Au gré du vent et de la lune, che si potrebbe tradurre “secondo il vento e la luna”, ma io trovo che l'espressione au gré abbia una dolcezza e un riverbero persino filosofico che l'italiano qui perde; piuttosto sarà difficile restituirne la finezza, mi limiterò a una descrizione sommaria. Ovviamente il tutto è stato preceduto da alcuni amuse bouche, ma ahimè non li ricordo con precisione: uno consisteva in tre piccoli molluschi in conchiglia appoggiati su un letto di sale, ovviamente sapienti spezie rendevano unico il sapore di ognuno dei tre.
Ottime tutte le varietà di pane serviteci, un plauso per quello che accompagnava il formaggio.
Ma ecco Il menu così come ci è stato rivelato poi, avendolo scelto alla cieca sulla fiducia:
Saint Pierre et consommé marin.
Assaisonnement flibustier pour l'avocat et l'araignée.
Un bouillon des mystères du Tonkin.
Homard au xérès et cacao.
Barbue aux zestes d'agrumes et Talauma.
Agneau à l'ajowan et chutney de Bahia.
Des fromages et des condiments.
Framboises au sucre d'or, « fleurs de sureau », gelée d'eau de rose et basilic du Siam.
Une pêche, un sorbet « sucre sauvage citron vert » et la crème au curry corsaire.
Tutte le preparazioni avevano una presentazione molto semplice, per essere un ristorante di questo livello, ovviamente i piatti erano montati con criterio, ma si tendeva alla geometricità senza eccessi, lontani sia dai barocchismi sia dal minimalismo: non è sull'impressione visiva che fa affidamento Roellinger, così la sua cucina è molto lontana dalle mode correnti, non indulge in spume, sorbetti o granite salati, e anche le varie cremine hanno sempre il loro preciso perché senza mai essere il centro del piatto o puro virtuosismo tecnico, è il sapore il punto di forza di questa cucina fuori dal tempo e dalla geografia.
Il pesce san Pietro era crudo, e credo di non averne mai mangiato di altrettanto delicato e morbido, purtroppo non ho un ricordo preciso del consommé marino, se non che era squisito;
la granseola, ragno di mare per i francesi, aveva la carne più soda e aromatica che avessi mai mangiato, la crema di avocado le regalava morbidezza e creava splendidi accordi di gusto, le spezie facevano trionfare il tutto senza imporsi con violenza, un piatto magico in tutti i sensi;
per il brodo da principio ci è stato portato il piatto, con dentro freschissimi molluschi crudi, poi da caraffe di cristallo ci è stato versato il profumatissimo liquido: purtroppo il fondo rimaneva nella caraffa, e dopo la prima cucchiaiata veniva voglia di richiamare i camerieri per chiedere di versare fino all'ultima stilla di quel concentrato dei profumi dell'Indocina, in effetti già annusando il pensiero correva subito alla cucina vietnamita e ai suoi aromi, con una importante differenza al momento dell'assaggio: mai un piatto da me mangiato in un ristorante vietnamita aveva raggiunto una simile quintessenza di gusto, il brodo da solo era una meraviglia, la semi-cottura istantanea valorizzava i carnosi molluschi;
per ironia non è stato in questo ristorante che ho mangiato il migliore piatto preparato con il famoso astice “pattes bleus” di Bretagna, perché continuo a sognare quello preparato alla borgognona al vino rosso, quasi fosse bue, che mi venne imbandito in quella che per me rimane la migliore cena della mia vita, quindi questo deve accontentarsi di un secondo posto, ma la carne incomparabile di questa prelibatezza era esaltata a meraviglia dall'accostamento con sherry e cacao, ovviamente la bestia era già perfettamente decorticata e nessun nervoso e sporchevole lavoro era richiesto per addentarla;
per il piatto di pesce avrei forse preferito il Saint-Pierre retour des Indes, la ricetta più celebre di Roellinger, il suo classico intramontabile, ma questo era presente nell'altro menu, in francese il più comune nome turbot indica il rombo chiodato, laddove barbue indica l'altra specie priva di opercoli, l'accostamento del pesce con gli agrumi è ormai diffuso… potrei dire che è stato il piatto che mi ha incantato meno, in quanto solo ottimo;
l'agnello in sé, la sua carne, non poteva competere con i due migliori agnellini da latte che sono finiti sotto i miei denti, uno a Pauillac (ne ho già scritto in un post), e l'altro in Savoia, ma mai l'accompagnamento era stato tanto complice e aromatico, si aggiunga che la porzione non era nemmeno tanto piccola, tenendo conto che era inserito in un menu di nove portate;
accompagnare i formaggi con mieli, mostarde e simili è ormai prassi comune, ma mai la presentazione degli accostamenti mi è stata proposta con tanta autorevole naturalezza, e senza la minima ombra di saccenteria, un plauso a Valentine, la bravissima addetta ai formaggi, il mio personale percorso dal formaggio di capra fresco al bleu è stato uno dei momenti più gratificanti;
i lamponi con gelatina di acqua di rose, aromatizzati da fiori e spezie di mirabile delicatezza erano un capolavoro di delicatezza e gusto;
e così siamo giunti all'ultimo dessert, in cui sia il sorbetto che la crema al curry regalavano sensazioni che al contempo placavano e stuzzicavano il palato già tanto stimolato.
Ovviamente non tutto era finito, seguiva la piccola pasticceria e i cioccolati, ma senza esagerare, d'altra parte per Roellinger un pasto deve prima di tutto far bene al corpo, e il suo ha brillantemente superato la prova del nove della grande cucina: la notte e la mattina dopo un simile banchetto sono state all'insegna della leggerezza e della digestione perfetta senza la minima traccia di acidità , alchimia che riesce sorprendentemente e immancabilmente a tutti gli chef davvero grandi.
VINI E ALTRE BEVANDE PARADISIACHE
Verrebbe quasi da pensare che di fronte a una simile magnificenza di cibo le bevande rimanessero defilate sullo sfondo, ma così non è stato.
Qui la carta dei vini non è sterminata, e anzi è fatta con molto criterio e scelte decisamente personali: mancano i vini celeberrimi che ci si aspetta di trovare in un tre stelle, e non ci sono bottiglie dai prezzi veramente stratosferici, con una predilezione per i produttori medio piccoli; una selezione raffinatamente discreta, non roboante, inoltre credo di poter affermare, fatte alcune ricerche in internet, che i ricarichi sono decisamente moderati e onesti. Un altro punto in cui Roellinger conferma l'elegante sobrietà che caratterizza il suo locale.
In realtà abbiamo commesso un piccolo errore al momento dell'aperitivo: abbiamo infatti scelto due Côteuaux du Layon, che- per carità - erano squisiti, ma questa era la volta giusta in cui indulgere in uno Champagne, sia per il tono celebrativo che dà il giusto avvio, sia perché dopo un vino dolce quello che segue rimarrà sempre un po' sfavorito; pazienza.
Siamo inoltre riusciti a infrangere un tabù: per la prima volta abbiamo chiesto e ottenuto acqua in caraffa (quindi gratis) in un ristorante tre stelle, devo dire senza nessun problema o imbarazzo (ricordo invece nel 2005 in un due stelle di Reims i problemi e quasi lo scandalo suscitato); in un ristorante di questo livello la bottiglia d'acqua minerale “normale” (ma la carta delle acque sembra molto più una moda italiana che francese) costa dai cinque ai dieci euro, visto che spesso finiamo per ordinarne due, il risparmio è ben accetto. Credo che la crescente consapevolezza del costo ecologico dell'acqua in bottiglia stia alla base della maggiore accondiscendenza alla richiesta, unita alla classe e alla posizione per cui nulla ha da dimostrare della Maison de Bricourt.
Approfitto di questo paragrafo per le note sul servizio: infatti in questo genere di locali ci si aspetta che sia semplicemente impeccabile, come è stato, e che i tempi tra un piatto e l'altro siano ottimali nell'equilibro tra giusto intervallo di meditazione senza mai degenerare in attesa affamata; sempre più interessante- e più delicato- diviene invece il rapporto con il sommelier.
Il nostro in questione- il ristorante ne ha in organico due- era un giovane timido e appassionato, che ha anche fatto un tentativo di parlare in italiano, ma ha proseguito su mio invito esprimendosi nella sua lingua; primi abboccamenti per decidere se accompagnare il tutto con una bottiglia o al calice, optiamo alla fine per una bottiglia di bianco seguita da una mezza di rosso. Il ragazzo non tarda a scoprire la mia predilezione per la Borgogna, ed è peraltro la destinazione più naturale per un bianco di alta classe, considerato che, essendo in Bretagna, non c'è l'alternativa del vino locale; mi consiglia, per reggere il menu, un vino abbastanza ricco e grasso, scartato quindi i troppo minerali Chablis, dalla rosa delle sue suggestioni scelgo un Mersault le Narvaux 2004 del Domaine Michelot, vino di alta classe, segnato dal rovere come ci si aspetta per un Mersault ma senza che questo sovrasti il frutto rendendolo legnoso, giustamente ricco e corposo senza essere veramente burroso e ineccepibilmente secco, si aggiunga il fascino di quattro ani d'invecchiamento, che per un bianco non sono mai pochi.
L'agnello chiamerebbe il Bordeaux, il Pauillac in particolar, come abbinamento, ma sobillato da me il sommelier mi ha consigliato una mezza bottiglia di Borgogna, non avevo più la carta davanti, per cui ho avuto un brivido quando ho sentito la denominazione proposta: Vosne-Romanée. Vosne-Romanée, il villaggio che è la gemma più spendente di quel sommo gioiello che è la Côte de Nuits, il luogo ove il concetto di terroir assume il suo pieno e più compiuto significato, il punto dove natura, storia e lavoro dell'uomo si sono incontrate per produrre i vini più nobili di tutto il pianeta, la finezza messa in bottiglia, la classe allo stato liquido; i vigneti grand cru di Vosne-Romanée sono una sorta di rosario dell'enofilo: a partire dai vigneti amministrativamente della vicina Flagey- Echezeaux e Grand Echezaeaux cioè- per giungere finalmente ai magnifici sei, La Grande Rue, Romanée Saint-Vivant, la Romanée, Richeburg, e infine i due monopole del DRC, La Tâche e sua maestà La Romanée-Conti, il vino più blasonato del mondo, che incidentalmente è anche il più caro, ma è un problema solo per gli amanti delle statistiche e per chi può permetterselo, il suo lignaggio è tale che neanche la trivialità di un simile record può svilirlo. Certo, qui stavamo parlando di una semplice denominazione comunale, ma le distanze di qualunque vigneto di Vosne dal suo cuore prezioso si misurano in metri, e l'intenditore sa che una denominazione di questo comune può superare molti premier cru di altri villaggi della borgogna. Rassicurato sul costo di questa mezza bottiglia di essenza della viticultura alla francese, un 2003 dell'azienda Mugneret (ma qui sta un guaio: ci sono più Mugneret a Vosne, come Mascarello a Barolo, e io non so più esattamente quale fosse), ho acconsentito con gioia, e ho fatto bene: sempre più mi rendo conto che ciò che in fondo cerco in ogni bottiglia di vino, ogni bottiglia di pregio, è quello che solo qui, nei grandi Borgogna, posso trovare- profumo di viole, finezza, sontuosità altera e non facile a concedersi, setosità e lunghezza in bocca. Non si può e forse non è nemmeno decente descrivere quello che provo già solo nell'annusare un vino simile, dirò solo che è come respirare la promessa di qualcosa di più alto, qualcosa che s'insegue e sfugge per tutta la vita, e si lascia vagamente intuire solo nella grande “poesia”, quale che sia la forma e il mezzo espressivo che assume- parole, musica, forme e immagini o appunto vino- per dirla in modo semplice e terribile: l'idea della felicità .
E proprio in relazione a questa ahimè piccola bottiglia di nettare è avvenuto il “fattaccio”: il giovane e simpatico sommelier, passando dal nostro tavolo, mi versa quello che credo fosse l'ultimo bicchiere nel calice (ancora in tavola perché la bottiglia precedente non era completamente finita e avrebbe potuto accompagnare i dessert di frutta) del bianco! Detto così fa sorridere, ma provate a immaginarvi, in un posto del genere! Poveretto, ha subito realizzato quello che ha fatto, e ha reagito portandosi la mano alla bocca, in un gesto di profonda mortificazione, raramente ho visto una persona così sinceramente in imbarazzo, ho dovuto quasi consolarlo e rassicurarlo che l'avrei bevuto lo stesso; lui è corso a confessare tutto per farsi sgridare dal collega anziano, e infatti è stato quest'ultimo a servirci per tutto il resto della cena.
Al termine di tutto, dopo lo splendido grog caldo che conclude gli après-dessert nel più puro stile piratesco, mi sono fatto portare la lista dei caffè e delle infusioni, e lì con mia grande gioia ho potuto trovare ciò che in tutti i ristoranti cerco e che solo qui e da Vissani (dove però non sapevano essi stessi di averlo) ho trovato: un tè semifermentato, insomma un oolong o blu - verde, la bevanda ideale per la sera; per rendere ancora più completo il mio piacere la selezione era curata da La Maison de trois Thé, folle casa del tè di Parigi ove ho provato la vertigine della scelta quasi infinita (e dove un tè può arrivare a costare quanto lo stipendio mensile di un dirigente), e ho potuto quindi concedermi un Fei Cui, una di quelle meraviglie di Formosa che esplodono in profumo opulento di fiori bianchi. In assoluto un tè del genere darebbe il suo massimo preparato secondo il metodo “gong fu cha”, la cerimonia cinse del tè, ma per quanto in teiera “all'occidentale” era comunque infuso a regola d'arte alla giusta temperatura e per la durata giusta. Ã? stata la conclusione perfetta della cena, e pur avendone preso per una persona soltanto, la quantità era tanto abbondante che anche akiko ha potuto berne un paio di tazzine.
IL CONTO, RECORD MANCATO, E LE ULTIME QUISQUILIE
Prima di arrivare al momento della resa dei conti, una riflessione sul divismo. I signori al tavolo accanto al nostro, finita la cena hanno chiesto di parlare con lo chef, e l'hanno fatto, in un angolo appartato dell'ingresso, dove li ho scorti di ritorno dalla toilette.
In Francia è ancora abitudine in molti di questi ristoranti che lo chef non si presenti in sala a raccogliere pareri e consensi, vige una concezione più borghese per cui il protagonista, colui che decide, è il commensale. Non contesto la pratica di andare a parlare coi clienti, io stesso generalmente sono più che lieto di conoscere l'autore del cibo che mi nutre, ma spesso in Italia la presenza dello chef è troppo ingombrante, egli diventa il divo che tutti sono lì per applaudire, in un narcisismo che può diventare verboso e può seccare persone più riservate di me.
Trovo molto più rispettoso il costume francese, e, se vogliamo, lasciar parlare il cibo servito è persino più coerente con una reale concezione del cuoco come artista: in fondo, nella vera arte, l'artista è nulla e l'opera è tutto.
Ci siamo: due menu a 172 l'uno fanno 344, 85 per la bottiglia di Mersault, 48 per la mezza di Vosne-Romanée, 14 per due bicchieri di Coteaux du Layon e 6.50 per il Fei Cui, per un totale di 497,50 euro.
Pur avendo segnato il mio massimo di spesa per la componente cibo, ho mancato il mio record assoluto per il conto di una cena per due, ancora fermo, nonostante cinque anni d'inflazione, alla formidabile cena alla Côte Saint - Jacques nel 2003.
Mi trovo sempre in imbarazzo quando devo giustificare simili totali: posso solo ribadire che spendo molto più a malincuore e con più inquietudine 80 euro per un pasto banale che quasi cinquecento per uno così; per questo, pur ponendo la cucina di Olivier Roellinger senza la minima esitazione tra le migliori cinque in assoluto che mi sia mai capitato di provare, mi limito a quattro cappelli, in confronto a molti altri ristoranti da cinque cappelli qui recensiti questo ne potrebbe meritare anche cinquanta, ma come si fa a definire “imperdibile” un pasto da un milione di lire? Una simile spesa va ponderata nell'incontro meditato tra le proprie priorità e le proprie disponibilità , e comprendo e rispetto tutti coloro che decidono che non fa per loro.
Ma per chi avesse deciso che un simile sforzo economico è accettabile per un'esperienza al massimo delle possibilità espressive che cibo e bevande possono raggiungere, posso assicurare che la Maison de Bricourt di Olivier Roellinger è uno di quei rari templi in cui ne vale veramente la pena.
E in questo senso è indubbiamente consigliatissimo.
Ringrazio chi è arrivato fin qui.
Consigliatissimo!!
[pamanis]
30/09/2008
Eì sempre un piacere leggerle.
Cordialmente